Focus 2018

spazio

Venerdì 8 e sabato 9 giugno 2018focus-grandezza-2015

con il patrocinio del
CONSIGLIO REGIONALE DEL PIEMONTE

con il sostegno di
FONDAZIONE CRT
IMA spa (Bologna)
REALE MUTUA (Torino)

con il contributo di
Camera Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Torino
CHIMAR srl (Sassuolo – Modena)
HAPPYNETWORK (Gioia del Colle – Bari)

SATTVA FILMS productions & school
presenta

FOCUS: ADRIANO OLIVETTI (V edizione)
a cura di Michele Fasano

«Non abbiamo dato la preferenza, nella nostra costruzione,
né alla libertà, né all’autorità; né alla maggioranza, né all’unanimità;
né al lavoro, né alla cultura; né all’accentramento, né al decentramento;
né
 all’esperienza, né al valore; né al particolare, né all’universale; né alla sintesi,
né all’analisi; né alla nazione, né all’individuo; né alla teoria, né alla pratica;
né al territorio, né alla funzione; né alla politica, né alla competenza; ma
accettammo ognuno di questi elementi nel suo valore e nelle sue proporzioni
onde ognuno di questi portasse ad armonia
»

Adriano Olivetti

PRESENTAZIONE
di Michele Fasano

«La macchina non ha soppresso la schiavitù umana, ma le ha solo dato una diversa configurazione.
Infatti, superato il limite, lo strumento da servitore diviene despota. Oltrepassata la soglia, la società diventa fabbrica, scuola, ospedale, prigione, e comincia la grande reclusione.
 Parlando di «convivialità» dello strumento mi rendo conto di dare un senso in parte nuovo al significato corrente della parola.
Lo faccio perché ho bisogno di un termine tecnico per indicare lo strumento che sia scientificamente razionale e destinato all’uomo austeramente anarchico. L’austerità è una virtù che non esclude tutti i piaceri, ma soltanto quelli che degradano o ostacolano le relazioni personali. L’austerità fa parte di una virtù più fragile, che la supera e la include, ed è la gioia, l’eutrapelia, l’amicizia.» (Ivan Illich
, La convivialità, 1973)

Focus: Adriano Olivetti giunge quest’anno alla sua quinta edizione.

Le prime due edizioni (Bologna 2013 e Bari 2014) sono state dedicate allo studio dell’esperienza storica della Olivetti di Adriano, nel prelievo di quei numerosi aspetti ancora fertili per il nostro presente e per il nostro futuro.

Nelle due edizioni successive (Milano 2016 e Messina 2017) sono state presentate esperienze imprenditoriali innovative, capaci di convocare buone pratiche, forme organizzative e idee di alto significato non solo economico, ma anche politico, sociale, ecologico, tali da suggerire una nuova teoria, sia economica che politica e sociale.

È maturata l’idea di sviluppare ulteriormente l’azione di stimolo del pensiero traendo spunto da esperienze concrete, per cui il Focus diventa adesso momento d’incontro e confronto tra gli attori che animano il mondo dell’economia responsabile: Economia del Bene Comune, Economia Civile, Economia di Comunione, Nuova Costruttività, Rete Economia Solidale, B-Corporations, cui si aggiunge la Società dei territorialisti e il Consorzio AASter, sempre in collaborazione con la Fondazione Adriano Olivetti.

Il Focus: Adriano Olivetti si propone così come luogo di elaborazione di nuove possibili prassi e più strette collaborazioni, per rendere tutti reciprocamente più solidi, sia sul piano cognitivo, che economico e finanziario, in vista di una nuova comunità che ha come obiettivo una trasformazione sociale. Il Focus diviene, dunque, occasione per «mettere a fuoco» il «principio di realtà» che deve informare l’impresa «conviviale» in quanto strumento di cui cerchiamo l’«episteme generativa» e, di conseguenza, la sua giusta «misura d’uso».

Quello che l’esperienza della Olivetti di Adriano ci insegna è che, come direbbe Friedrich Von Hayek: «… la conoscenza concreta che guida l’azione […] non esiste mai come un corpo logico. Esiste solo nel modo disperso, incompleto, incoerente che si coglie nelle molte menti individuali…»; e che, come direbbe Fabrizio Barca, «… la conoscenza necessaria per prendere decisioni pubbliche che siano davvero d’interesse generale non è concentrata nelle mani di pochi […] ma è dispersa in una moltitudine di soggetti, privati e pubblici, ognuno dei quali possiede frammenti di ciò che è necessario sapere»; e infine che, come ci avverte Edgar Morin, tutto questo vale nel piccolo dell’impresa, così come a livello planetario.

Il Focus: Adriano Olivetti, pertanto, intende perseverare nell’esplorazione di «esperienze positive» di economia «conviviale», per carpirne il segreto «tecnico», dopo quello «epistemico», nel viatico olivettiano, per andare alla radice del disagio dei tempi e distillarne l’antidoto, insoddisfatti che più spesso ci si accontenti solo di sedarne i sintomi.

Non si comprende l’organizzazione olivettiana (sia quella dell’impresa, sia quella immaginata per la comunità locale o per lo Stato) se non si tiene conto che concezioni ontologiche fondamentali erano 1. la MULTICULTURALITÀ come suo principio attivo e 2. la sua natura METAMORFICA (che supera su base esperienziale la dualità concettuale progressismo/conservazione). Centrali sono la bio-diversità, in luogo della mono-cultura, e la «democrazia», necessaria per ragioni tecnico-funzionali, perché ben si sa che nell’«età della complessità» la conoscenza è diffusa, mai appannaggio esclusivo di una élite, la quale è sì necessaria, ma per ragioni di responsabilità manageriale/intellettuale dei processi organizzativi/cognitivi. Da qui discendeva un diverso criterio di selezione della classe dirigente: al servizio, in ascolto, dialogante; da qui discendevano differenti criteri e strumenti di reperimento dei dati di verità a fondamento dell’azione di pianificazione del rischio o, se si vuole, della capacità predittiva soggiacente al piano (quale che fosse: progetto imprenditoriale o politico) e di conseguenza le diverse forme organizzative specifiche di volta in volta necessarie.

L’organizzazione olivettiana era capace di gestire l’impensato, era pronta a governare il cambiamento, perché questo era dato come normale e in funzione di un fine condiviso comunitario. Il cambiamento non solo era agito senza che la comunità si snaturasse, ma anzi proprio perché la comunità non si snaturasse, ponendo al centro come «principio di relatà» il rispetto della Persona Umana, non mero individuo, ma «campo relazionale», che estende dunque l’esercizio dei propri diritti in un determinato spazio a sua volta conviviale: il territorio, l’ambiente, il Cosmo.

Ebbene, dire allora biodiversità e metamorfosi significa dire che la capacità di cambiamento alla «Olivetti di Adriano» non era fondata su un pensiero lineare di radice nichilista, capace di dire di sé solo di «non essere il proprio contrario», ma in definitiva incapace di una identità distinta. Tale capacità metamorfica non era, dunque, fondata su quella immutabile «follia del divenire altro da sé» che Emanuele Severino individua come «la coerenza del sottosuolo essenziale della filosofia del nostro tempo, (…) potenza concettuale (e pratica) distruttiva di cui, perlopiù, non si è consapevoli», che trova la sua estrema realizzazione nella Tecnica tramite forme di nichilismo attivo (omologo o rivoluzionario) o passivo (conformista o subalterno). Una cultura dominante in modo trasversale priva del criterio per predire la soglia d’uso equilibrato della Tecnica, che pertanto da strumento diviene despota.

La comunità olivettiana deve essere «concreta» proprio perché ha presente la necessità di esorcizzare il processo di «astrazione del pensiero» applicato al fare politico, economico, organizzativo, produttivo… ed è proprio perciò che essa è capace di farsi criterio d’uso equilibrato… sapiente. Allo stesso tempo, tuttavia, se alla «Olivetti di Adriano» la «follia del divenire altro da sé» era atteggiamento esorcizzato, questo era perché si sapeva anche bene che risposta adeguata «a quel divenire» non poteva essere una mera «conservazione» (vs il divenire altro), perché in natura non sopravvive chi non sappia adattarsi imparando a cambiare.

Ben si applicano, allora, alla Olivetti di Adriano le parole di Raimond Panikkar quando afferma, dialogando con Emanuele Severino, che il nostro compito di esseri umani non è tanto risolvere l’enigma del mondo, ma imparare a vivere in esso; e che, pertanto, sfuggendo al nichilismo della logica astratta (quella «follia del divenire altro da sé» che egli riconosce descritta in modo esauriente e puntuale nel discorrere teoretico dell’amico filosofo), ci si dovrà chiedere semmai e finalmente in che consista «la salute del divenire ciò che si è…»; spostando, cioè, la riflessione sul «divenire» dalla dimensione «teoretica» (idealistica e «di parte») a quella della «concreta» (non materialistica e non di «parte opposta») esperienza del vivere insieme tra bisogni, interessi, ideologie, culture e competenze differenti… nella cornice comune della Biosfera, del Cosmo; spostando dunque la riflessione sul «divenire» dalla dimensione «teoretica» a quella dell’esperienza della vita umana e non umana nel suo insieme… rimettendo con ciò in discussione tutti i criteri di reperibilità dei dati di «verità» che sottendono alle scelte.

Adriano Olivetti e gli uomini del Movimento di Comunità avevano cura di tale equilibrio dinamico tra progresso e conservazione, nel proposito di affermare «la salute del divenire ciò che si è», da reperire nella liberazione delle dinamiche naturali degli ecosistemi umani e non umani al lavoro insieme, in un adattamento metamorfico continuo, riformistico/rivoluzionario (tutt’altra cosa dal riformismo sintomatologico del conservatorismo).

Il concetto di «complessità» è oggi ancora troppo spesso un’astrazione che continua a partorire sistemi corporativi e gerarchici, certo meno compiaciuti e feroci di quelli organizzati nei lugubri totalitarismi degli anni ’30 del XX sec., contemporanei del giovane Adriano Olivetti, ma di sapore tecnocraticamente analogo. Non da meno, tuttavia, è la stessa critica teorica a tali costrutti, che sa «cosa non vuole» meglio di «che cosa fare».

Non si comprende ancora fino a che punto «la complessità» non sia solo «complicazione e interdipendenza» da gestire (dall’alto o dal basso), quanto anche piuttosto e prima di tutto «dinamica generativa» da assecondare: libertà e bellezza. Non s’intende fino a che punto dalla «dialogica» auto-organizzativa degli opposti che la definiscono nasca sempre qualcosa non solo di nuovo, ma anche d’illogico (persino d’insperato), non prevedibile a priori (l’innovazione è «indeterministica») e che, pertanto, per navigarci o addirittura provare a governarla (scongiurardone sia gli eccessi liberistici distruttivi che i moralismi ideologici) la piramide cognitiva va rovesciata e organizzato va il dialogo creativo e multiculturale sì… ma tra «le competenze e gli interessi effettivamente implicati nella situazione specifica» (la comunità è «concreta»), pena l’eterno ritorno dell’uguale (foss’anche rivoluzionario… perché fatalmente solo e mero nichilistico «divenire altro da sé»)… fino alla catastrofe.

In tali ragioni epistemologiche (solo poi organizzative e politiche) sta la contemporaneità della vicenda olivettiana (che a questo punto sì, forse può anche essere definita «profetica»…), che ci interroga prima di tutto sui fondamenti delle nostre dinamiche di pensiero, quali che siano i nostri migliori propositi e i più diversi sforzi.

Che fare dunque? Per parte nostra promuovere imprese «conviviali»! Perfezionarle, lasciarsi trasformare dall’esperienza, raccontarle, innescarne l’emulazione, comporre filiere socialmente responsabili, ecologiche, integrate, che sappiano incubare e proteggere le più giovani e nuove…

Ed è questo che noi facciamo..